Spilla Corso Ardimento - Pattugliatore Scelto - Blu Esercito Italiano Carabinieri Art.SPILLA-AB
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Spilla Corso Ardimento - Pattugliatore Scelto - Blu Esercito Italiano Carabinieri Art.SPILLA-AB

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Spilla Corso Ardimento - Pattugliatore Scelto - Blu Esercito Italiano Carabinieri Art.SPILLA-AB

distintivo di pattugliatore scelto per ufficiali e sottufficiali che hanno superato il corso di ardimento
- anche alla truppa.
misure cm 2.00x3.00
CORSO D’ ARDIMENTO



L’iter formativo di un Ufficiale del ruolo normale dell’Esercito (volgarmente detto “d’Accademia”) si concludeva con il Corso d’Ardimento seguito dal Corso di Paracadutismo. Erano le “ciliegine sulla torta” dopo un impegnativo iter di studi di cinque anni trascorso tra Modena (i primi due anni) e Torino, inframmezzati da campi, esercitazioni, viaggi d’istruzione in Italia e all’ estero.

La base del Corso di Ardimento era la Scuola di Fanteria di Cesano, una trentina di chilometri a Nord di Roma. L’imponente porta d’accesso recava una grande scritta che metteva un po’ soggezione:

“Questa è la scuola della Fanteria, Regina delle battaglie”.

Qui si sarebbero messi alla prova gli “attributi”di ciascuno di noi in due mesi di attività che dire “intensi” è un eufemismo. Il corso si divideva in due parti. Nella prima parte si faceva soprattutto attività ginnica e ardimento. Nella seconda attività tattica di pattuglia e sopravvivenza. Lo scopo era duplice: fornire ad ogni Ufficiale di Fanteria le cognizioni tecniche per cavarsela in ogni circostanza e fargli prendere coscienza del proprio “punto di rottura”. Proprio questo era l'obbiettivo principale, portarci al limite dell’umana sopportazione e cercare di farci superare questo limite. Chi avesse mollato non avrebbe potuto fregiarsi dell’ambitissimo distintivo di “Ardito pattugliatore scelto”: un gladio romano nero su un sfondo rosso. Avevo 23 anni, ero forte e ben ginnasticato e, soprattutto, bramavo di essere assegnato ai Paracadutisti per cui ero ben deciso a dare l’anima per fare bella figura in questo corso ambito e temuto.



Il primo mese, oltre a correre, correre, correre e poi ancora correre e fare ginnastica, si mise alla prova il puro coraggio fisico.

Al centro della grande area per l’ardimento svettavano due enormi torri fatte di tubi innocenti e assi di legno collegate da un vertiginoso ponte imalaiano. Un po’ a lato due torri più piccole, sempre in tubi innocenti. Su un altro lato, altissimi pali gialli uniti da corde poste in varie posizioni: i cosiddetti “ponti”, da superare ciascuno con la tecnica più appropriata.

Saltare dalle torri di 14 metri in un minuscolo – così sembrava dall’alto- telo tondo, calarsi in corda doppia dalla cima delle torri, percorrere di corsa una serie di assi oscillanti di legno sospese nel vuoto, lanciarsi da 16 metri a volo d’angelo in un lungo e ruvido telo a scivolo, saltare dalle torri più alte appesi ad un anello fissato alla cintura, arrampicarsi su tavolati verticali sino alla cima delle torri sfruttando i pochi millimetri di spazio tra un’asse e l’altra, scendere a tutta velocità dalla cima della torre più alta scivolando sulla pancia su una corda tesa sino a terra e tanti altri ameni esercizi. Ogni tanto si applicava su terreno vario quanto appreso alla Palestra di Ardimento, questo era il nome ufficiale dell’area e ci si calava da ponti e dirupi o si attraversavano ad altezze vertiginose canaloni scoscesi con le varie tecniche di superamento apprese sui “ponti di corde”.



Diedi l’anima e se c’era da fare qualcosa di particolarmente pericoloso mi offrivo sempre volontario: il basco amaranto dei Paracadutisti era uno stimolo formidabile. Ero piuttosto bravo ma sentivo il fiato sul collo di un collega, ufficiale dei Bersaglieri, capo corso di ginnastica che era davvero bravissimo e piroettava come un saltimbanco.

Alla fine di questa fase cominciarono le pattuglie: da ricognizione e da combattimento. Ci volevano gambe buone, fiato, resistenza, ottima capacita di leggere le carte topografiche, senso d’orientamento, capacità di osservazione. Ci si muoveva di notte, in piccoli gruppi o a coppie, con il compito di raggiungere in un dato tempo un punto prestabilito, osservare, annotare, rientrare per riferire. Sembra semplice. In realtà voleva dire ben oltre dieci ore di marcia in terreno impervio mentre squadre di fanti di leva ci cercavano per farci fare, come minimo, una figura di merda.

Un istruttore seguiva silenzioso ogni pattuglia, annotando ogni cosa senza mai intervenire. Al rientro, alle prime luci dell’alba, riceveva il cambio da un collega riposato mentre a noi, disfatti dalla fatica, toccava pulizia armi, riassetto degli equipaggiamenti e poi branda ma non più di tre o quattro ore perché poi la sarabanda ricominciava. Non di rado, quando già in pigiama pregustavo il tepore della branda, suonava l’allarme e si doveva correre a rivestirsi, equipaggiarsi, armarsi per fare adunata, ubriachi di stanchezza, pronti a partire per qualche ignota missione. Non poche volte, fatto l’appello, ci rimettevano in libertà. La rottura di c…….i era ritenuta sufficiente….per ora.

Le pattuglie da combattimento avevano lo scopo di addestrarci ad eseguire “colpi di mano” vale a dire simulare di far saltare ponti, binari ferroviari, centri radar, posti comando, liberare prigionieri, eliminare nemici ecc. in siti presidiati dai soliti agguerriti Fanti della Scuola. Si partiva al tramonto, si camminava per boschi e vallate tutta la notte evitando strade e sentieri, braccati dai Fanti. All’alba ci si fermava nascosti in qualche bosco a pochi chilometri dall’obbiettivo. Senza farsi vedere si cercava di individuare le difese nemiche. In base a queste il capo pattuglia decideva come attaccare, ne informava i suoi uomini e assegnava i compiti. La notte stessa si attaccava l’obbiettivo per poi scappare tutta la notte fino ad un altro obiettivo. Si facevano pattuglie di una notte, due notti, tre notti, cinque notti.

A conclusione del corso ci spostarono in Basilicata e qui per 15 giorni scarpinammo in lungo e in largo attaccando, fuggendo, nascondendoci, dormendo e mangiando poco o niente nei pochi momenti in cui era possibile farlo. Era febbraio, nevicava e faceva un freddo boia. Si dormiva all’addiaccio, come sempre, completamente vestiti e con il fucile infilato nel sacco a pelo, pronti a schizzar via al minimo allarme.



Ci sarebbero mille episodi da raccontare.

All’inizio del corso gli istruttori ci avevano detto con chiarezza che il loro scopo era quello di farci fallire, di farci saltare i nervi, di portarci al limite della sopportazione. Li ascoltammo sogghignando: ci voleva ben altro per sconfiggere un baldo Tenente del 150° Corso ! Ma quando non si dorme, non si mangia, si è zuppi di sudore impastato con la pioggia ed il fango, hai tutta una collezione di vesciche ai piedi, piaghe sulle spalle e sulla schiena per l’attrito dello zaino, hai perso la cognizione del tempo e ambisci solo a lasciarti andare in un profondo sonno ristoratore, il punto di rottura si avvicina pericolosamente. Qualcuno, non pochi, lo superarono. “Andate a fare in c..o voi e il corso d’ ardimento !!”.

Fine del corso e, in qualche caso, “arresti”(1).

L’Ufficiale veniva prelevato da una camionetta, riportato nella civiltà e spedito al reparto con una bruciante frase nel libretto personale “Corso d’ardimento non superato” .

La maggior parte di noi resistette e superò il corso. Ognuno di noi ce la fece perché al momento della crisi - e a tutti venne almeno una crisi - i compagni lo sostennero, gli presero lo zaino ed il fucile facendogli superare il momento difficile. Ricordo una gelida notte di pioggia. Un mio carissimo amico vomitò per la stanchezza ed entrò in crisi ma bisognava a tutti i costi raggiungere un certo punto in un certo orario. Gli presi lo zaino, Umberto il fucile. Lui si tolse gli scarponi, li legò insieme e si li mise a tracolla. Ripartimmo a passo rapido e lui, scalzo nella neve, si addormentò. Si, ho detto bene, si addormentò. Camminava dormendo. L’unica precauzione era guidarlo nelle curve perché altrimenti sarebbe andato dritto. Superò la crisi.

Io fui ad un pelo dalla rottura. Da più giorni non mangiavamo e dormivamo due o tre ore buttandoci a terra senza nemmeno toglierci lo zaino dalle spalle. Gli istruttori consentirono una breve sosta per mangiare, termine assolutamente inadeguato perché non avevamo nulla da mangiare. Un istruttore rovesciò nel fango un sacchetto di iuta con una ventina di patate marce che ci dividemmo tra le singole squadre. Trovato un barattolo in un fosso vi mettemmo dell’acqua (di quella ce n’era in abbondanza), le patate tagliate a pezzi e i residui di razione “K” (2): un pezzo di galletta, una caramella, un po’ di carne in scatola, un pezzetto di formaggio. Accendemmo con gran fatica un fuocherello e vi mettemmo quella brodaglia che per noi era meglio di nettare ed ambrosia. Eravamo congelati e non vedevamo l’ora di dividerci nei gavettini quel liquido caldo e saporito e sentirlo scendere, vivificante, nelle viscere anchilosate dal gelo. Guardavamo inebetiti il fuoco, le facce violacee irsute di barba impastata di fango, i passa montagne luridi calati sulla fronte, le mani protese alle fiamme per cercare un po’ di tepore. E venne l’istruttore.

“Bravi, avete preparato una bella cenetta”.

Sogghignò, ci guardò, diede un calcio secco al bidone rovesciando tutto sul fuoco che si spense sfrigolando.

“Buon appetito” osò pronunciare e si allontanò.

Rimanemmo immobili, paralizzati, increduli, mentre dal profondo una rabbia belluina saliva, saliva, proveniva dalla notte dei tempi, dagli abissi primordiali della coscienza, urlava in noi la rabbia ancestrale, incontenibile della belva ferita . Qualche mano si allungò lentamente sino al pugnale…… Ancora un istante e sarei balzato urlante al collo dell’istruttore affondando la lama e tranciando la carotide come ci avevano insegnato . Grazie a Dio i freni inibitori e l’ addestramento svolsero bene il loro compito e l’istruttore e noi ci salvammo. Ma mancò poco, veramente poco.



Ed anche il corso finì.

Gli istruttori tornarono esseri umani e arrivammo a ringraziarli per quanto .- maledetti ! – avevano fatto per noi. Eravamo smagriti, doloranti, pieni di lividi e vesciche ma soddisfatti: Ce l’avevamo fatta.

Il Direttore del Corso si complimentò con noi e appuntò sulle divise l’ambitissimo distintivo da Ardito poi comunicò le graduatorie. Trattenni il fiato. Non ce l’avevo fatta. L’amico Bersagliere era arrivato primo e io secondo su 44 superstiti. Comunque non fui deluso. Avevo dato il massimo, non potevo fare di più. Onore al primo classificato e pronti per il prossimo cimento: il corso di paracadutismo.
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